La sala operatoria mi è parso un luogo spaventoso, pieno di oggetti per nulla rassicuranti.
Mi hanno fatta scendere dal lettino e salire su quello di metallo freddo che c’era lì, sotto una lampada accecante.
C’erano molte persone che si muovevano intorno a me, e parlavano tra loro. Ma non parlavano con me. Nessuno lo faceva.
Avevo tanto, tantissimo freddo e non riuscivo a mettere a fuoco ciò che accadeva intorno a me.
Ho chiesto subito del mio ginecologo, il Numero 2, e qualcuno mi ha detto che stava arrivando.
Intanto mi hanno messo la flebo e legato il braccio sinistro tipo con una cinghia. Questa cosa mi è parsa davvero inquietante.
Dopo un tempo che mi è parso interminabile, durante il quale ho vanamente cercato di attirare l’attenzione e inutilmente sperato che qualcuno mi dicesse qualcosa di confortante, è arrivato il mio ginecologo.
Il Numero 2 mi ha subito messo davanti agli occhi il foglio per il consenso informato all’intervento e mi ha chiesto di firmarlo. Ricordo che cercavo disperatamente di leggere ma vedevo tutto sfocato e ho anche dovuto firmare con la mano destra (io sono mancina) perché a sinistra c’era la flebo.
Mi veniva da piangere.
Ad un certo punto qualcuno mi ha messo la mascherina dell’ossigeno sulla faccia e mi ha detto di contare. Avrò pronunciato forse l’uno e il due, e poi sono piombata nel sonno più profondo del mondo.
Quando ho riaperto gli occhi avevo freddo. Tanto tanto freddo. E tremavo.
E poi avevo un dolore pazzesco alla pancia. Mi sembrava di essere appena passata in un tritacarne.
Non sapevo dov’ero. Non sapevo perché.
Vedevo mia mamma e il bighi ma era tutto confuso, sfumato.
Volevo parlare ma non riuscivo a farlo. Aprivo gli occhi un secondo e poi li richiudevo.
Ad un certo punto ho visto il bighi uscire perché erano arrivati dei suoi parenti e ho pensato “No, non andare, resta qua” ma non ho potuto dire nulla.
Ogni tanto riconoscevo confusamente alcune persone ma io avrei voluto accanto solo i miei familiari, perché stavo troppo male.
Poi è stato chiaro che avevo la febbre alta. Ho sentito mia mamma che lo diceva a qualcuno. È stata sera, e poi notte, e mia mamma è rimasta sempre accanto a me, a controllare che la flebo scendesse, che non finisse la morfina, che la febbre non salisse.